2017 anniversario di Toscanini
In occasione del rientro alla Scala del
Maestro per il concerto inaugurale della riapertura della Scala ricostruita
dopo la Guerra, Arturo Toscanini riunì l’illuminata borghesia
milanese di allora per suggerire la fondazione di un'associazione che si
proponesse di dare, in Italia e all’estero, ogni appoggio morale ed economico
alla Scala e di interessarsi ai suoi problemi, affidandosi a manifestazioni
artistiche e di carattere editoriale.
Con l’atto costitutivo dell’Associazione,
Arturo Toscanini è stato nominato Presidente onorario a vita.
Wally
Toscanini, figlia del grande
Maestro, regalò ad Anna Crespi una fotografia di suo padre,
sostenendo che proprio lei fosse l’unica persona che avrebbe potuto
ricreare l’associazione Amici della Scala, di cui tuttora è presidente.
Ci sembra interessante
aggiungere un testo redatto dal Professor Antonio Rostagno, docente di
drammaturgia musicale e Storia della musica nell’Università “La Sapienza” di
Roma. Può essere oggetto di un approfondimento del lato creativo di Arturo Toscanini.
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Lo stile della direzione d’orchestra nella Nuova Italia. Dall’Unità
a Toscanini
Antonio
Rostagno
Esiste
una categoria definibile italian conducting style, “stile direttoriale italiano” fra Otto e Novecento? Quali ne
sarebbero gli elementi distintivi? Oggi non sentiamo più connotazioni nazionali
nello stile esecutivo: lo stile di Abbado non è certo italiano, lo stile di
Bernstein non è americano; cosa sarebbe lo stile Chailly? O di Barenboim? Il
mio intento qui è mostrare che il problema dello “stile nazionale” era invece sentito
anche nella direzione d’orchestra, e che aveva fondamenti non ideologici ma
epistemologici (culturali). Dopo una rapida panoramica sulla direzione
d’orchestra nell’Italia post-unitaria, la conclusione farà emergere il
collegamento fra lo stile di Toscanini e l’etica di Benedetto Croce.
Il
primo documento che presento ritrae la vecchia prassi esecutiva dei teatri
italiani, che a metà anni Sessanta dell’Ottocento sta scomparendo. Siamo alla
Scala di Milano, al maestro concertatore Alberto Mazzucato viene richiesto di fare
il supervisor alle rappresentazioni. Usualmente il maestro che preparava i
cantanti al pianoforte non dirigeva le prove orchestrali e lasciava la
direzione delle performances al primo violino-direttore; alla Scala il primo
violino era dal 1833 Eugenio Cavallini, voluto ancora dalla Malibran e da
Donizetti. Ecco cosa risponde Mazzucato:
[22 gennaio 1863]
All’Onorevolissima Direzione dei Regi
teatri di Milano
[…] Per antico sistema il potere del maestro
direttore-concertatore, mentre altrove si trova sovente condensato in un solo
individuo, qui fu sempre frazionato in due, operanti non già simultaneamente,
ma successivamente. Ed infatti, dove esistono maestri distinti dai direttori
d'orchestra, fu sempre riconosciuto e praticato che i poteri del maestro
concertatore si continuassero sino alla prova generale, ma che dalla prova
generale in poi ne rimanesse invece investito il direttore d’orchestra:
scomparendo così da quel punto il maestro concertatore, né avendo più compito
alcuno per quel determinato spettacolo.
L’unione
delle mansioni di concertatore e direttore viene messa in atto nel 1866, quando
Mazzucato cerca di portare alla Scala Angelo Mariani, il primo conductor
italiano. Lo attestano alcune lettere inedite di fra i due, ora conservate alla
Biblioteca Berio di Genova. Le
trattative falliscono perché Mariani ha già il nuovo stile direttoriale
autorevole, che arriverà direttamente a Toscanini; e questo provoca
l’opposizione dei professori dell’orchestra della Scala. La vicenda è accennata
da Antonio Ghislanzoni, il librettista di Aida:
egli racconta che nel 1866 Mariani era in procinto di trasferirsi alla Scala,
ma alcuni professori d’orchestra temendolo convinsero Mazzucato ad assumere la
direzione unica. Per la prima volta nella stagione 1866-67 Mazzucato è nominato
“concertatore e direttore d’orchestra”.
Ma
l’anno dopo c’è una nuova rivoluzione: la Direzione teatrale della Scala e i
coraggiosi impresari Marzi nominano ben due concertatori-direttori
-
Alberto Mazzucato preparerà e dirigerà la prima locale del Don
Carlos di Verdi
-
Il giovane ventiseienne Arrigo Boito preparerà e dirigerà la
sua opera prima: il Mefistofele.
Inizia
una sotterranea competizione; Mazzucato scrive a Mariani che l’imperizia di
Boito “non ottenne che un’irrimediabile
demoralizzazione delle masse; perciò tutto presentemente va a rotoli”; e questo
rischia di compromettere anche le contemporanee prove del Don Carlos.
Nel
giugno 1868 la Direzione della Scala trova inadeguati sia Mazzucato che Boito,
e riprende le trattative per ingaggiare Angelo Mariani. L’editore Giulio Ricordi
sta preparando il ritorno di Verdi alla Scala, assente dal 1845, con la nuova
versione della Forza del destino. In questo
momento l’amministrazione della Scala deve sostituire contemporaneamente il
concertatore-direttore Mazzucato e il direttore di scena Francesco Maria Piave,
colpito da malattia mentale irreversibile. Cosa più logico che pensare a
Mariani, spesso descritto come concertatore - direttore - “regista” ante-litteram?
Proprio in quei giorni il più autorevole giornalista di
Milano, Filippo Filippi, pubblica su uno dei suoi giornali un ampio saggio
dedicato a Mariani. È il primo ritratto di quello che fino a Toscanini sarà lo
“stile direttoriale italiano”. Le caratteristiche di questo stile sono:
-
la capacità di dominare tutto, sul
palco e in orchestra, in prova e in recita; ciò significa che le scelte
d’interpretazione musicale devono nascere dal collegamento con il movimento
scenico
-
“quella foga incandescente che ci
vuole per la musica italiana”.
Opposto a questo stile direttoriale italiano, sarebbe
secondo Filippi, quella “severa
interpretazione delle musiche classiche” di Michele Costa (Costa, nato a
Napoli, dirigeva il Her Majesty’s Theatre di Londra). Non è difficile capire perché l’articolo
biografico di Filippi esce proprio in questo momento; Mariani sarebbe la logica
soluzione per i problemi della Scala.
Ma la cosa non va a buon fine; viene invece ingaggiato il
romano Eugenio Terziani, stimato contrappuntista, più adatto alla musica sacra
che a quella melodrammatica. Già nel 1869 Filippi inizia a criticare aspramente
la debolezza di Terziani come conductor, accusandolo di mancare precisamente di
quelle caratteristiche dello “stile italiano” tanto vivaci in Mariani.
La stagione 1869 si inaugura ancora con il Don Carlos; Filippi
lo recensisce sulla Perseveranza,
e inizia una lunga serie di articoli dai toni violenti contro le inefficienze
dell’orchestra della Scala e del suo conductor. Filippi indica quattro problemi
fondamentali:
-
la mancanza di autorità del direttore Terziani;
-
la scarsa fusione dell’orchestra;
-
la cattiva intonazione fra famiglie
orchestrali e fra orchestra e banda sul palcoscenico;
-
i tempi di Terziani spesso troppo
lenti (“troppo lenta la prima frase della Benza nell’allegro del terzetto Trema
per te, falso figliuolo!, troppo lenta la marcia nell’ultima parte che precede
la cadenza […]; troppo stiracchiato anche l’allegro del duetto fra Posa e Don
Carlos Dio che nell’alma infondere”).
Volte in positivo, sono le qualità che
contraddistinguono lo stile da Mariani a Toscanini. La questione dei tempi
rapidi, già di Verdi, non dipende tanto da una scelta strettamente musicale, ma
da una scelta principalmente drammaturgica. Per esempio, il tempo rapido
premette un migliore fraseggio alle voci, una distribuzione più comoda dei
respiri del cantante, e quindi una dizione della parola più chiara, più in
linea con l’impostazione del “grande attore”, vicino allo stile di recitazione
di Adelaide Ristori o del grande shakespeariano Tommaso Salvini. Così
testimoniano ancora le cantanti Rosetta Pampanini e Toti Dal Monte ricordando
le esecuzioni di Toscanini (La lezione di Toscanini pp.198-199).
Il 4 gennaio 1869, alla vigilia della nuova Forza del
destino, Filippi è ancora più severo:
Il signor Terziani è un semplice uomo, con una fragile
bacchetta [bâton] in mano, [...] per sbracciarsi che faccia, [i professori
d’orchestra] non vogliono seguirlo, dormono sugl’istromenti.
La stessa debolezza viene accusata nelle lettere che
Mazzucato in quei giorni scrive a Mariani:
Il Terziani, pur egregio artista, […]
se qualche buon santo non lo rialza, ha perduto ogni prestigio. Io credo
assolutamente indispensabile la venuta di Verdi o la tua: e meglio ancora
naturalmente se si potesse combinare l’una e l’altra. […] Abbiamo bisogno del
nuovo: del nuovo nella Musica, del nuovo nell’orchestra.
Dall’epistolario di Mariani apprendiamo che egli aveva
realmente risposto all’appello di Mazzucato ed era presente alla Scala durante
le ultime prove della Forza del destino.
Ma neppure stavolta Mariani viene nominato direttore della Scala. Nel 1871 però
Terziani si rivela troppo inadeguato; ecco ancora Filippi il 2 gennaio 1871:
Il signor
Terziani dirige così alla buona, alla carlona, come il campanaro suona la
campana, come il chierico serve messa; nel suo braccio, che misura la battuta,
non si avvertono né i colori, né i sentimenti della musica, come si avvertono
in Mariani ed Hans De Bülow [che in quegli anni risiedeva in Italia, come anche
Franz Liszt]. E pazienza almeno indicasse con giustezza metronomica i tempi ed
i movimenti; ma la sua naturale floscezza lo costringe a rallentare in modo
così scandaloso da far finire la musica tre quarti d’ora più tardi […]. E così
addio effetti, addio slanci; ed ai poveri cantanti manca il fiato e col fiato
l’opportunità delle espressioni concitate.
Ed ecco che torna la questione del tempo rapido,
evidentemente considerata fondamentale non solo per motivi di gusto. Questi
rimarranno i fondamenti dello “stile direttoriale italiano” (anche nel
sinfonismo) fino a Toscanini, e la loro origine è proprio in Angelo Mariani,
ossia il più vicino a Verdi. Licenziato Terziani, il giovane Franco Faccio viene
nominato “maestro concertatore e direttore d’orchestra”; è un punto di arrivo, si
tratta della stabile affermazione anche sul podio della Scala di quello “stile
direttoriale italiano” che ho fin qui ripercorso.
Prima
di cercare testimonianze dello stile di Faccio, occorre ricordare che in Italia
con gli anni Settanta iniziano due fenomeni di radicale importanza: il
wagnerismo e il sinfonismo, le prime esecuzioni di opere wagneriane in Italia e
l’avvio di stagioni stabili di concerti sinfonici. Le orchestre e i direttori
spesso sono gli stessi del teatro maggiore cittadino: Faccio dirige la Società
Orchestra della Scala, Pedrotti dirige i Concerti Popolari del Teatro Regio di
Torino, Mancinelli dirige la Società Orchestrale di Bologna, Campanini i
concerti sinfonici di Parma. La carriera di Toscanini, che inizia nel 1886, è
profondamente radicata in questo contesto.
Pochi
anni più tardi il solito Filippi ripropone una sua definizione dello “stile
direttoriale italiano”; nel 1878 egli pone a confronto i due direttori italiani
di punta, Pedrotti di Torino e Faccio di Milano (La Perseveranza, 10 luglio
1878). Filippi ripete qui le considerazioni
già fatte su Mariani e Costa; lo stile di Faccio è più vivo e predilige forti
contrasti (“un tempérament”), mentre
Pedrotti è forse “più padrone di sé, più corretto, [ma] deve fare
necessariamente un’impressione meno profonda”. Filippi conclude che quello di
Faccio è lo stile adeguato all’opera italiana, quello di Pedrotti alla musica
sinfonica. Lo “stile teatrale”, colorito e fiammeggiante di Mariani e Faccio
sarà poi proseguito da Luigi Mancinelli; quello di Pedrotti troverà seguito in
Martucci.
Lo
stesso confronto si ripete nel 1884, quando sei orchestre italiane (Torino,
Milano, Napoli, Parma, Bologna, Roma) e sei direttori si confrontano durante
l’Esposizione Nazionale di Torino: nella critica coeva, da Francesco D’Arcais a
Giuseppe Depanis, Martucci è considerato un direttore eminentemente sinfonico,
con uno stile posato e molto sorvegliato; Mancinelli e lo stesso Faccio sono invece
considerati i direttori teatrali secondo lo “stile italiano”.
Anche Arrigo Boito nel 1877 offre una importante
testimonianza di ciò che si richiedeva allora alla nuova figura del direttore
d’orchestra. Nel pubblicare la “Disposizione scenica” per il Mefistofele Boito
allega un’appendice intitolata “Istruzioni speciali pel Maestro concertatore e Direttore
d’orchestra Maestro dei cori e della Fanfara”. Il
primo dato che emerge è la volontà che il direttore d’orchestra controlli e
domini tutto, soprattutto sul palcoscenico, soprattutto i movimenti di scena, in
una sempre più complessa armonizzazione con la parte orchestrale. Per esempio,
nella descrizione dell’Epilogo, al ritorno dei cori angelici, le Istruzioni di
Boito raccomandano:
Il direttore d’orchestra a seconda delle condizioni locali
del palco scenico potrà in questo Epilogo serbare la collocazione delle masse
corali com’è indicata sulla pianta, oppure modificarla.
In secondo luogo Boito più volte raccomanda dinamiche
estreme, più che pianissimo, smisurati crescendo, “potenti scoppi di sonorità”
ecc. Insomma: Boito si era rivelato un direttore debole nel 1868 alla Scala, ma
aveva idee ben chiare, che andavano decisamente nella direzione dello “stile
direttoriale italiano” tracciato da Mariani e Filippi, che giungerà a Toscanini.
Possiamo
tirare alcune somme: con gli anni Ottanta, al debutto di Toscanini, lo “stile
direttoriale italiano” ha già alcune precise caratteristiche. In sintesi: uso
delle dinamiche a forti coloriti, grandi escursioni dal più che pianissimo
all’estremo fortissimo, tempi elastici in relazione alla recitazione, tendenza a
far emergere singoli momenti isolati e impressionanti più che un disegno basato
su astratti principi musicali-compositivi.
Queste
semplici caratteristiche richiedono però tre importanti precisazioni:
1) Libertà esecutiva non
significa arbitrio
2) Ogni scelta di tempo o
di dinamica, nell’opera, non ha funzione strutturale assoluta, ma è dettata da
ragioni drammaturgiche. I più che pianissimo, come gli accelerando e le riprese
di “tempo primo” sono dettate dallo svolgimento dell’azione. Mai un direttore
italiano che sia dentro questa tradizione pianificherà i tempi metronomici secondo
criteri formali o strutturali
3) La concertazione deve
essere rapida; questo ovviamente è un obbligo dettato dalla economia teatrale, sarebbe
impossibile fare le centinaia di prove che sono consuete all’Opéra parigina. Ma
diviene un tratto dello stile, che ritroveremo fino a Macinelli e Mascagni.
Antonino Votto, a lungo assistente di Toscanini ricordava: “è falsa l’idea che
T. facesse delle prove terribilmente lunghe” (La lezione di T. , p. 235)
Faccio dirigerà la Scala fino al 1890; Toscanini in quegli
stessi anni inizia la carriera e diventa direttore stabile al Regio di Torino;
poco dopo alla Scala.
Toscanini
è la logica conclusione di quello “stile italiano” che ho ripercorso; per
dimostrarlo prenderò in esame esclusivamente il Toscanini direttore di Verdi;
il Toscanini direttore dei classici viennesi o del romanticismo sinfonico
richiede altre riflessioni, per le quali qui manca lo spazio.
Per
dimostrare la continuità dello stile propongo un paragone fra l’Otello di
Toscanini e quello del suo maggiore contemporaneo, Wilhelm Furtwängler. Basti confrontare
questa esecuzione del tema-cardine dell’Otello, il tema del bacio, da parte di
Toscanini e di Furtwängler:
G.
Verdi, Otello, Atto IV (finale dell’opera), “tema del bacio”
Questo
tema-cardine ricorre tre volte; Toscanini lo esegue la prima volta con grande
elasticità di tempo, con un sensibile rallentando al punto culminante della
frase; meno libera è la seconda ripetizione; rigidamente in tempo, è infine l’ultima
ripetizione, Desdemona morta e Otello morente. La funzione drammaturgica di
questa scelta interpretativa è evidente, e l’ascolto ravvicinato delle tre
ripetizioni costruisce il dramma: la vita e l’amore si irrigidiscono e perdono
calore.
Furtwängler
esegue invece le tre ripetizioni in modo rigorosamente identico, senza alcuna nuance
e senza il minimo ritardando in nessuna delle tre. Segue infatti lo stesso principio
formale che applica al sinfonismo, per cui le ricorrenze di un tempo
metronomico segnalano un principio strutturale in base a quel Fernhören di
origine schenkeriana. Tre ripetizioni significano per lui una grande campata
strutturale, da eseguire con rigorosa identità per evidenziare l’analogia; non
gli interessano le funzioni drammaturgiche, ma solo quelle strutturali.
Mai
come in questo caso lo stile di Toscanini richiede invece un ascolto molto
ravvicinato, niente affatto “fern”, anzi una immedesimazione-emozione che vive
nel momento, nel tempo vissuto, nel hic et nunc; è quella “impressione,
impressione e nient’altro” di cui parla anche Verdi. Sono due concezioni
radicalmente differenti.
G.
Verdi, Otello, Atto IV, scena prima (Desdemona, “Canzone del salice”)
tutto
qui dipende non dalla battuta musicale, ma dalla pronuncia e dal significato
emotivo dei ricordi che via via passano per la mente di Desdemona: la musica è dentro
la parola. E nulla di questa libertà ritmica è scritto da Verdi.
Toscanini
interviene anche più a fondo quando modifica la strumentazione di Verdi (noto è
il suo raddoppio di corni introdotto nella scena-madre del Ballo in maschera).
Evidentemente il suo approccio interpretativo non si può affatto ridurre a
quello che Richard Taruskin ha definito la “objective performance” o
addirittura la maestroless performance. È pur vero che Toscanini ridusse molto
la libertà del sistematico e sensibile elastischer Takt comune nello stile di
Mariani, Faccio, Mancinelli e Mascagni; ma questo non deve far pensare che egli
si collocasse contro quella tradizione stilistica.
Nessuna
di queste possibilità sembra adeguata a Toscanini; quindi la sua posizione nei
confronti del melodramma di Verdi richiede una diversa categoria per giudicare
la relazione autore-testo-interprete. L’affinità con Verdi, che permette a
Toscanini di realizzare esecuzioni ancora oggi esemplari, non deriva solo dalla
sua tecnica direttoriale; tale affinità non proviene neppure da una semplice intuizione
della “espressione” del testo (secondo la definizione di Rudolf Kolisch). Tale
affinità non deriva soltanto da fattori strettamente estitici o artistici; al
contrario la “verità” della sua interpretazione risiede in una dimensione che è
molto lontana dal testo musicale o teatrale; questa affinità trova le sue radici
nella complessiva cultura e nella personale vicenda esistenziale dei due
musicisti.
Per
spiegare la particolare relazione di Toscanini con Verdi, dobbiamo inquadrare l’azione
del direttore d’orchestra nella cultura italiana della sua generazione; più
precisamente, vorrei proporre una riflessione su alcune analogie con il
pensiero di Benedetto Croce, al quale Toscanini fu molto vicino soprattutto
negli anni Trenta-Quaranta, nel periodo più nero della dittatura fascista. Qui
risiede la vera novità storica: I precedent direttori d’orchestra italiani (e
non solo) non possono per nulla essere considerati degli intellettuali, ma solo
degli artigiani di alto livello, tecnici di altissima specializzazione.
Toscanini per primo è un uomo interessato al la dimensione politica, etica e
intellettuale del proprio mondo, e partecipa ai dibattiti pubblici, prendendo
posizione con la sua attività musicale (dal rifiuto di Bayreuth e Salisburgo,
alla direzione dell’Orchestra di Israele fondata da Huberman, che diresse
gratuitamente) e con le sue prese di posizione più specificamente politiche.
Giuseppe
Galasso ha sottolineato come Croce e Toscanini siano stati i principali
testimoni di una crisi europea iniziata negli anni Venti: “uno spettacolo di
disorientamento, di turbamento, di instabilità”
(Croce
e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 291-293). Qui Galasso si
riferisce alla crisi della mentalità liberale, quella mentalità che ha animato
il secolo del Risorgimento (quando si parla di “liberalismo” per l’Ottocento
italiano si intende ciò che nella terminologia politica europea è invalso
chiamare “liberalismo classico”. Questa concezione è del tutto diversa
dall’attuale significato del termine “liberale” e ancor più dall’anglo-sassone “Liberal”,
e forse addirittura l’opposto del comune impiego terminologico american odierno].
Dopo
la presa di posizione contro dal fascismo, sia Croce che Toscanini cercano un
sistema che sia in grado di rimpiazzare il “liberalismo classico”; in questa
ricerca essi condividono alcuni punti di vista e alcune idee fondamentali.
Nel
1937 Croce invia a Toscanini, allora a New York, la bozza di un articolo
contenente i suoi principi contro il totalitarismo; Toscanini nella sua copia
sottolinea e commenta con grande entusiasmo alcuni punti. Scrive Croce:
I problemi morali, intellettuali, estetici e politici non
stanno fuori di noi stessi, come la pioggia o il bel tempo: stanno in noi
stessi, e perciò non ha senso domandare per essi ciò che accadrà più o meno
probabilmente, bisognando invece unicamente risolversi a operare, ciascuno
secondo la propria coscienza e la propria capacità.
[…]
Il liberalismo è avversario della democrazia quando questa
tende a sostituire il numero o la quantità alla qualità, perché sa che
così facendo la democrazia prepara la demagogia, la dittatura e la tirannide,
distruggendo sé medesima.
[…]
Chi lavora per un ideale, ha in ciò
stesso la sua speranza e la sua gioia.
Altrove
Croce afferma che ogni attività umana è un “libero atto produttivo” dello spirito
(Galasso, 236). In tal modo il filosofo riassume l’idea di una dialettica che
rifiuta la “falsa coscienza”; ciò significa che Croce non può accettare che gli
atti umani (sociali, politici tanto quanto artistici) siano semplici riproduzioni
di idee al di fuori dell’autocoscienza soggettiva. Il passo successivo è quello
verso la “religione della libertà”, che è libertà di azione individuale, in
accordo con un’idea profondamente radicata tanto nel liberalismo di Croce,
quanto in quello di Toscanini.
Nella
sua Estetica, Croce arriva ad affermare che l’atto dell’interpretazione dell’arte,
intesa come “libero atto ricettivo”, deve riprodurre l’identica intuizione che
ha vivificato e ispirato l’atto creativo (espressione) dell’artista. Ciò
significa che senza una libera e produttiva attività spirituale (senza il
“libero atto produttivo”) da parte della ricezione, l’arte rimarrebbe
un’oggettività astratta, fuori della vita e fuori della storia; e in tal modo
non sarebbe più Arte.
Nel
suo sistema, Croce deriva ogni attività, inclusa l’interpretazione artistica ,
dai medesimi principi dell’etica individuale e collettiva. In base a questo
principio del “libero atto produttivo” individuale, Croce tenta una ideale
rifondazione, dopo il fallimento del cosiddetto “liberalismo classico”
dell’Ottocento.
Toscanini
condivide l’idea di Croce per cui nella vita come nell’arte ogni azione umana
dev’essere un “libero atto produttivo”. Perciò l’atteggiamento interpretativo
di Toscanini verso il teatro di Verdi non può essere ridotto alla oggettività
impersonale che Taruskin ha chiamato maestroless performance. Ma l’azione
interpretative di Toscanini su Verdi non è affatto così, com’è facilmente
dimostrabile con un esame della registrazione di Otello (per cui rimando allo
scritto più lungo, che si può leggere in questa pagina al link PER FAVORE
COMPLETARE DA PARTE DEGLI AMICI DELLA SCALA). Se quella di
Toscanini su Verdi non fosse una “libera azione produttiva”, ciò dissolverebbe
la fondamentale “libertà produttiva” dell’individuo, ossia quell principio
etico prima che estetico che era profondamente condiviso da Croce e dal
direttore d’orchestra.
Secondo
Toscanini, il testo d’autore (parliamo sempre e qui esclusivamente della sua
relazione con il teatro di Verdi, che è parte della sua personalità, della sua
formazione e delle sue convinzioni etico-politiche; non potremmo dire la stessa
cosa sic et simpliciter per il suo Mozart o per il suo Brahms) non può essere
semplicemente eseguito “come scritto” in senso letterale (ossia “come scritto
sulla pagina a stampa”); al contrario, il “libero atto produttivo”
dell’esecuzione-interpretazione deve ri-generare il contenuto della libera
creatività dell’autore. Quindi il senso del testo deve essere ri-prodotto “secondo
la storia”, liberamente creato per l’oggi, per l’hic et nunc necessariamente
mutevole, ossia: il testo sulla carta tanto quanto il senso sono inevitabilmente
mutevoli, devono essere inevitabilmente modificati. La numerosissime modifiche
(i celebri “ritocchi”) che Toscanini apportava alle partiture di Verdi
testimoniano un atteggiamento completamente opposto a quell’idea di maestroless
performance; quelle modifiche alla scrittura di Verdi sono veri e propri “liberi
atti produttivi” nell’accezione di Croce, tendenti a portare il “testo scritto”
dentro il “vivo presente”, nelle mutevole abitudini esecutive delle orchestre,
nelle altrettanto mutevoli abitudini d’ascolto e consuetudini comunicative: è
l’idea di fare una “opera viva nella storia” (ancora Croce).
Allora:
quella che Toscanini porta nella direzione d’orchestra e nell’interpretazione
musicale è una dimensione ‘politico-filosofica’, che deriva da una profonda
condivisione dei principi etici del più influente intellettuale della sua generazione;
ed è la prima volta che un musicista esecutore in Italia eleva la propria
professione a tale livello ideale, ben oltre il semplice mestiere esecutivo.
Ma
le mie conclusioni portano a un secondo aspetto, stavolta non filosofico ma
strettamente musicale: lo “stile direttoriale italiano” fino a Toscanini ha
alla sua base un principio teatrale drammatico e narrativo, non un principio
strutturale, formalista, astrattamente sintattico. Se l’interpretazione nasce
da un principio strutturale assoluto, ogni momento deve essere subordinato al
piano generale, e di qui deriva quell’idea di Fernhören di cui parla Furtwängler,
che oggi ridefiniamo “ascolto strutturale”, quell’idea che per tanti decenni ha
fatto della “percezione della forma” il supremo valore artistico e la suprema
lode per un’esecuzione. Se invece, come per Toscanini, si è fedeli al principio
drammatico, in cui sono più importanti il momento, the spot of time, il
fenomeno sensibile e l’impressione immediata che esso suscita, ecco che tutto cambia.
E che Toscanini seguisse questo principio nell’affrontare ogni partitura
(opera, sinfonismo, musica di balletto) viene confermato da Antonino Votto, suo
collaboratore per lunghi anni:
Toscanini aveva un’anima lirica, e ha portato questo soffio
anche nel campo della musica pura, dove altri sono rimasti a una forma più
castigata e meno espansiva. […] Ogni nota della partitura era come un
personaggio che doveva vivere, e la musica veniva fuori da sé, a modo suo” (La
lezione di T., p. 237)
Questa
non era una caratteristica del solo Toscanini, ma una costante della
“tradizione stilistica direttoriale italiana” che ho cercato di ripercorrere. E
non vedo perché la concezione strutturale identificata nel principio del Fernhören
di Furtwängler debba essere considerata in assoluto come un dogma indiscutibile
che assegna valori e disvalori indiscutibili: questo è un atteggiamento
politico prima che estetico che certo non ha più nulla della grande tradizione
liberale ottocentesca, principio che invece per Toscanini è inderogabile prima
e al di sopra di ogni scelta estetica “assoluta”. Poi, tutti siamo radicatamente
affezionati al nostro modo di ascoltare Wagner e Beethoven nelle esecuzioni di
Furtwängler; e con l’educazione che diverse generazioni hanno avuto è stata
considerata una eresia anche solo il tentarne una riconsiderazione su basi più
larghe che non la sola impressione acustica o analisi strutturale interna. Ma
le righe precedenti propongono una prospettiva un po’ diversa, senza che ciò
significhi un rifiuto dell’eredità estetica di Furtwängler (il che sarebbe ovviamente
impossibile e sciagurato: si sta ragionando sul piano dei giudizi di fatto, che
non implica alcuna incidenza sul giudizio di valore, come ha ben chiarito Norberto
Bobbio nelle auree parole ora raccolte in Politica e cultura).
L’eredità
di Toscanini, la vera e più profonda eredità spirituale, al di là di singole
scelte interpretative, va oltre la dimensione estetica e consiste nell’aver
coniugato la continuità dello “stile direttoriale italiano” con il pensiero
etico e filosofico di Benedetto Croce, vivendo il suo tempo né come passatista
né come avanguardista, ma sempre con vivace e attiva capacità critica. Questo
fa sì che il suo Verdi rimanga attuale, perché i significati che la sua
interpretazione ha rivelato vanno molto al di là del campo musicale
strettamente inteso.
Lettera
di Alberto Mazzucato maestro concertatore del teatro alla Scala, alla Direzione
dei Teatri di Milano [Aut.: Museo Teatrale alla Scala, CA 3697 (proveniente
dalla parte dispersa dell'Archivio della Direzione dei RR. Teatri di Milano)
Protocollo n° 35 (23 gennaio 1863)].
Lettera di
Alberto Mazzucato ad Angelo Mariani, Milano 24 febbraio 1868 (Genova,
Biblioteca Berio, Album Mariani)
S.n.
[Filippi], Schizzi biografici. Direttori e compositori contemporanei. Angelo
Mariani (II parte), in “Il mondo artistico” II/23 (7 giugno 1868).
Filippo
Filippi, Rassegna drammatico-musicale. R. teatro alla Scala: Don Carlos, in “La
Perseveranza”, X/3287 (Lunedì 28 dicembre 1868).
Filippo
Filippi, Appendice. Rassegna musicale: Teatro alla Scala. Mosè di Rossini, 4
gennaio 1869, in “La perseveranza”, XI/3294 (lunedì 4 gennaio 1869), p. 1.
Filippo Filippi, Appendice. Rassegna drammatico-musicale:
Teatro alla Scala. Africana, in “La Perseveranza”, XIII/1013 (lunedì 2 gennaio
1871), pp. 1-2, col. 5-7.
Estratto dal dattiloscritto inviato da Benedetto Croce a Toscanini e da questi
trascritto nella lettera a Ada Mainardi, Domenica 4 aprile 1937, in Arturo
Toscanini, Nel mio cuore troppo di assoluto. Le lettere di Arturo Toscanini, a
cura di Harvey Sachs, Milano, Garzanti, 2003, p. 342 (sottolineature di
Toscanini).